Sul numero del 25 agosto 2005 de Il Corriere della Sera è uscito il seguente
articolo: "L’omeopatia avrebbe più o meno gli stessi effetti del placebo. A
sostenerlo sono ricercatori svizzeri dalle pagine della rivista scientifica
inglese Lancet. Matthias Egger, dell’università di Berna (Svizzera), insieme ai
suoi collaboratori, ha preso in esame 110 studi clinici nei quali si confrontava
l’effetto del placebo («farmaco finto») con quello di cure omeopatiche, e ha poi
analizzato allo stesso modo altrettanti studi in cui invece a essere confrontata
era l’efficacia del placebo rispetto a trattamenti convenzionali. Oggetto delle
cure in queste studi erano malattie respiratorie, patologie di pertinenza
chirurgica, e persino argomenti d’interesse anestesiologico. I ricercatori hanno
preso in considerazione sia studi di piccole dimensioni e di relativa qualità
metodologica sia studi importanti sotto il profilo numerico (molti pazienti
trattati) e di elevata qualità scientifica. Tirando le somme dello loro
osservazioni, gli studiosi svizzeri hanno prima di tutto notato che qualunque
trattamento, omeopatico o convenzionale che fosse, appariva in genere più
efficace negli studi clinici piccoli e di minore qualità che non in quelli più
grandi e di maggior rigore.
Inoltre, quando hanno focalizzato la loro attenzione sui secondi, hanno rilevato
che l’omeopatia, in generale, faceva più fatica a discostare i suoi effetti da
quelli del placebo, mentre i trattamenti convenzionali tendevano a mantenere un
effetto maggiore rispetto a quello del «farmaco finto». «Il nostro lavoro
dimostra che l’effetto dell’omepatia è compatibile con l’ipotesi-placebo» ha
dichiarato Egger. «Non ho ancora potuto leggere il testo completo dello studio»
commenta Andrea Valeri, medico omeopata, responsabile del Dipartimento di
ricerca clinica della Società Italiana di Medicina Omeopatica. «Però sulla base
degli elementi che ho a disposizione credo di poter dire che i ricercatori, nel
loro procedimento, abbiano paragonato solo situazioni sperimentali, che non
hanno necessariamente un riscontro con la realtà. In altre parole hanno
confrontato tra loro risultati "artificiali"». «Gli studi clinici come quelli
presi in considerazione in questo caso» chiarisce Valeri, «hanno lo scopo di
isolare delle variabili e di studiarle, e questo vale sia per i trattamenti
omeopatici che per i farmaci tradizionali.
Se si confronta, per esempio, un farmaco contro il colesterolo con il placebo,
si può rilevare una sua certa efficacia in quei pazienti studiati e in quelle
condizioni, ma poi quando si trasferisce il suo uso nella realtà clinica si
possono riscontare una serie di problemi che non ci si aspettava». «In altre
parole» rinforza Valeri «i ricercatori hanno confrtontato tra loro solo alcuni
"giochi numerici", mentre per confrontare seriamente l’omeopatia con i
trattamenti convenzionali bisogna individuare una patologia e poi pianificare
uno studio con due "bracci sperimentali", uno con la terapia omeopatica e uno
con quella tradizionale». «Se le cose vengono fatte in questo modo» conclude
Valeri, «l’omeopatia molto spesso risulta migliore della medicina convenzionale,
come dimostrano diversi studi, tra cui uno uscito solo qualche mese fa, nel
quale 315 pazienti alla fine di un trial clinico su cinque situazioni diverse
(mal di schiena, depressione, insonnia, sinusite e mal di testa), ha indicato
che l’omeopatia è di circa il 50 percento più efficace dei trattamenti
convenzionali». Di diversa opinione il professor Silvio Garattini, dell’Istituto
Mario Negri, di Milano: «Lo studio pubblicato da Lancet rappresenta l’ennesima
conferma di tanti altri lavori scientifici che si sono accumulati nel tempo e
che non hanno mai evidenziato l’efficacia dell’omeopatia».
«Che poi i piccoli studi mettano più facilmente in evdenza l’effiacia rispetto
al placebo è vero anche per molti farmaci, che quando vengono esaminati più
seriamente molto spesso mostrano i loro limiti. Ma il fatto che questa sia un
regola generale non toglie però che si debba usare sempre lo stesso metro per
giudicare le terapie e che sia un po’ difficile che "niente" faccia qualcosa»
sottolinea il farmacologo. «E in questo senso anche le autorità regolatorie
hanno grandi responsabilità: se io diluissi del Chianti a livelli omeopatici non
sarei autorizzato a mettere un’etichetta sulla bottiglia e a venderlo, e quindi
non vedo perchè debba essere possibile mettere in commercio altri prodotti, come
appunto quelli omeopatici, che contengono semplicemene acqua, indistinguibili
uno dall’altro». «E’ stato messo a disposizione un premio di 50mila eruo per chi
si dimostri capace di distinguere il contenuto di cinque fiale di prodotti
omeopatici senza etichetta, ma nessuno è riuscito a vincerlo» conclude il
direttore dell’Istituto Mario Negri. «E allora mi chiedo perchè questi stessi
prodotti indistinguibli possano essere venduti come diversi l’uno dall’altro e
come dotati di una supposta efficacia»".
Ecco la nostra risposta inviata al Corriere: "La discussione pro e contro
l’uso della metanalisi in medicina va avanti da oltre dieci anni. Sono molti poi
(ad esempio il board del New England) coloro i quali, nel mondo scientifico, si
dichiarano polemicamente scettici su tali tipi di ricerche". Poiché tuttavia il
dibattito solleva questioni importanti (non solo nel campo della variazione
delle Medicine non Convenzionali) vale la pena di descrivere brevemente la
sostanza della discussione per poi lanciare alcuni spunti di riflessione
generale sul tema della qualità e indipendenza della ricerca clinica. "La
metanalisi spesso sbaglia quando se ne confrontano i risultati con quelli dei
grandi trial: meglio allora le vecchie e sane revisioni qualitative". E’ questo
il messaggio dell’articolo di Jacques LeLorier (NEJM 1997; 337) e, soprattutto,
dell’editoriale di John Bailar III. L’articolo ha confrontato i risultati di 12
trial di grandi dimensioni pubblicati nel periodo 1991-1994 con quello di 19
metanalisi relative agli stessi temi, pubblicate in precedenza. Le aree cliniche
coperte dai trial inclusi nello studio riguardavano la cardiologia, la
chirurgia, l’ostetricia, l’oncologia e la pediatria.
Le conclusioni dell’articolo, ma soprattutto l’editoriale di Bailar, sono
piuttosto negative per la credibilità della metanalisi: in circa un terzo dei
casi i suoi risultati avrebbero portato all’adozione di trattamenti dimostrati
inefficaci dai grandi trial, mentre in un’analoga proporzione alla rinuncia a
trattamenti in realtà efficaci. Ad a voler essere più cauti occorre riconoscere
cha la metanalisi non è certo la panacea per i guai della ricerca clinica (BMJ
1997; 315: 635). A questi elementi va aggiunto un dato ulteriore: il rischio di
omessa ricerca, cioè all’esame strumentale solo di certi lavori e di certi "end
point" e non di altri (Liberati A., Tempo Medico, 1997, Novembre). Vorremmo
rammentare, infini, a Garattini che un fatto è qualcosa di osservabile che
occupa un certo spazio e dura per un certo tempo; qualcosa di cui si predicano
attributi e relazioni direttamente o indirettamente controllabili. Ma questi
attributi e relazioni sono predicati, cioè concetti che figurano dentro la
teoria. E le teorie mutano: alcune scompaiono, altre vengono modificate. Un
fatto, pertanto, dipende spesso non da verifiche induttive o deduttive, ma, dal
modello hurselliano in poi, dalla relazione fra osservatore ed evento.
Molti dati, pertanto, possono avere valenze diverse a seconda del contenuto
culturale a priori dell’osservatore Come è stato scritto da metodologi illustri,
in medicina non sempre ciò che appare è vero e, soprattutto, a prevalere sono
spesso preconcetti ed opinioni.( Terlizzi R, Canel F, Desideri A, Suzzi G,
Celegon L: Ciò che è evidente non è sempre vero. Riflessioni epistemologiche
sull’Evidence Based Medicine. G Ital. Cardiol., 1999, 29: 1041-1043).
A cura di
Carlo Di Stanislao
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