Arrivederci Yvonne: un ricordo della dott.ssa Mollard
“ E la falena disse: cerco anch’io, come tutti, una
luce nella notte”
Franco Marcoaldi
Erano le 9,30 del 7 febbraio 2006, una mattina gelida, con un cielo terso,
senza una bava di vento, l’aria immobile, come in attesa. Yvonne Mollard tornava
a casa con due buste di frutta e verdura, acquistate, come ogni martedì, al
mercato di piazza S. Agostino. E, come sempre più spesso le accadeva da qualche
tempo, pensava, passando con passo ancora lieve fra le bancarelle del mercato
rionale prossimo alla sua casa, che la vita è un viaggio immobile e breve, un
diario frettoloso ed incerto che dobbiamo riempire di corsa, per non recarci a
mani vuote all’appunto con il nostro Creatore. Pensava alle cose che aveva fatto
in una vita di studio assiduo e di assidua pratica medica e si sentiva serena:
non sarebbe andata all’appuntamento a mani vuote.
Scattato il verde ha preso per le strisce pedonali con in testa l’eco dei
grandi progetti che aveva da giovane e che aveva, con testarda determinazione,
portato avanti: gli studi a Parigi e poi in Giappone, la fondazione della Sowen
a Milano, il Centro AFA a Nizza, gli articoli, i libri, i tanti pazienti
“accompagnati” in 50 anni di ininterrotta, tenace professione. Pensava ai suoi
allievi, a come li aveva cresciuti, con ruvida durezza ed amabile, materna
generosità. Non si era accorta che con lei anche un autobus si era mosso da via
Olona, rapido, fulmineo, imprevisto. E’ stato colpita di schianto, straziata, il
cranio schiacciato dalle ruote posteriori. Appena chiamato (poche ore dopo il
tragico evento) da Fabrizio Bonamoni, ascoltandone il racconto ho pensato ad
Eschilo: lo schianto al capo, inatteso e mortale. Come Eschilo Yvonne aveva
intuito che occorre legare, con un sottile filo rosso, la propria vita con le
proprie azioni e che, sempre, dovremmo occuparci, con onestà, di ciò che ci
riguarda. Raro esempio di coerenza, così raro che di medici come lei si parla
come di specie esotiche e introvabili, come il Belepsch, un uccello conosciuto
sinora solo perché raffigurato in una stampa inglese dell’800.
Yvonne, in tutta la vita, ha portato avanti una personale, coerente ricerca
su temi che le furono sempre cari, presi dalla tradizione giapponese, espressi
da Autori molto sentiti, Mishima e, soprattutto, Kazuo Ishuguro: il destino
dell’uomo, la sua fragilità, l’importanza di levigare, togliere, valutare ciò
che può essere lasciato, che non è importante da portare avanti. La sua resta
lezione di contenuti e di stile, intendendo per stile il modo più autentico di
lasciare una traccia. A rileggerla appare evidente il suo modo non casuale di
scrivere, una lezione di vera etica, elegantemente sospesa fra quotidiano e
sublime, fra frammenti di parlato e accensioni improvvise e impreviste di
liricità. Non solo la lezione dei classici taoisti e dei maestri avuti in
Francia e in Giappone, ma il coniugarsi più ampio di letture molte (Tolstoj,
Rimbaud, Proust ad esempio), da cui mutuava una “medietà lessicale” piena di
“spinte verso l’alto”, capace di parlare e far pensare ogni tipo di lettore. Non
ho bisogno di dire quanto mi ha sempre colpito questo suo modo di parlare,
argomentare e scrivere, quanto, sin dal primo incontro, l’ho trovato
simpatetico: ragionamenti che si fanno metafora, accarezzati con simmetria e con
forza, spogliati dell’inutile, del fronzolo, che sanno di autentica sincerità.
Negli ultimi anni la sua rettitudine l’aveva convinta che era meglio “vivere
in disparte”, quasi nascosta, come per seguire il dettato di Epicuro (late
biosas), per non correre il rischio, o anche solo la tentazione, di
cadere nelle trappole e gibigiane della “nuova comunicazione”, facile, sciocca,
inutilmente semplificativa. Ma ancora inseguiva fatti, sogni, scelte morali:
Agopuntori senza Frontiere per aiutare i paesi del III mondo, lezioni private di
clinica pratica e teoria metodologica per gli allievi più attenti e meritevoli.
Fra i molti ricordi uno, in particolare, affiora alla mente netto, stagliato,
concretamente presente. Una lunga conversazione con lei alla vigilia dell’ultimo
Congresso SIA-SIRA, a Torino, nel 1998. Mentre mi parlava delle sue ricerche io
avevo chiaro, chiarissimo, non solo il senso delle sue parole, ma il senso
“definitivo” di tutto quel discorso, di quelle parole messe in fila, che solo
così potevano darsi, tanto che a sportane solo una sarebbe svanito tutto.
Comprendevo che nel suo parlare c’era la forma ermeneutica della parola, capace
di scovare in fondo a tutti gli uomini anche quello che ignorano di sapere. La
mia era una esperienza concreta (e che concretamente ancora ricordo): potevo
quasi toccare i pensieri e i sentimenti, come se avessero un corpo e dei
confini.
Fu in quel momento che compresi cosa è la bellezza. La bellezza, pensai, è
stare bene, sentirsi pieno di cose e averne altre fuori che ti rivestono
perfettamente, senza lasciarti un solo pezzo di corpo scoperto. La bellezza è un
vestito che ti sei cucito addosso, soffice, caldo, indistruttibile, fra i tanti
altri che mancano di qualcosa. Ero euforico e pensavo: allora gli uomini possono
avere parole così, pensieri così. Grazie a lei stavo comprendendo come si
“smascherano le cose” e si conoscono le persone: non un braccio, una spalla, un
ginocchio, ma una vivida, precisa, distinta ed irripetibile emozione. Ora che so
che Yvonne non c’è più sono preso dallo sconforto, il mondo mi appare avvolto in
un fumo denso e grasso, che sale a sbuffi, con funghi bianchi e grigi di
fuliggine densa. Ho l’impressione che tutta la luce sia scomparsa, come
inghiottita dalla terra. Tutto mi sembra inutile: voci, richiami, libri,
pazienti. Mi sento come una mosca in trappola, che continua ad urtare il vetro
di una finestra. Poi mi sono ricordato di Tolstoj, di un passaggio della Morte
di Ivan Il’ic: “Tu sarai lì, sulla soglia, e guarderai la mia gioia. Al posto
della morte c’era la luce. E’ finita la morte – si disse – la morte non c’è
più”.
Carlo Di Stanislao
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